Nel 2020 abbiamo vissuto un dramma, ma anche imparato a guardarci meglio dentro

Dal momento che viviamo negli anni della narrazione, dello storytelling – i social network prosperano su questo bisogno che abbiamo di raccontare e raccontarci – mi chiedo come verrà raccontato questo 2020. Quali libri, quali film, quali canzoni, quali memorie, discorsi, proclami, ci restituiranno il sapore di un anno tragico e anomalo, in cui l’umanità è stata tenuta in ostaggio da un virus sconosciuto e al tempo stesso ha continuato a cercare di condurre un’esistenza normale.
Quando si dice che “nulla resterà come prima”, si esprime l’auspicio che il Covid-19 abbia portato qualcosa di più rispetto a morte e a impoverimento. Che abbia portato accanto a ciò anche una sorta di lezione.
Confesso che non sono ottimista sul valore pedagogico delle sciagure. L’umanità nel XX secolo ha vissuto gli orrori di due guerre mondiali, ma non ha chiuso con le guerre, semmai le ha solo circoscritte. E in ogni caso, se guardiamo alla pandemia in una prospettiva storica, non c’è di che stare allegri. Abbiamo già vissuto una situazione incredibilmente simile a questa, solo con una sequenza degli eventi invertita: prima la pandemia – la famosa Spagnola (1918-1920), poi la crisi economica mondiale (1929, crollo di Wall Street). A noi invece è toccata prima la crisi finanziaria, la Grande Recessione del 2008, e poi il Coronavirus, che, se tutto va bene, terminerà entro il 2021, grazie ai vaccini.
La storia non si ripete mai esattamente nello stesso modo. Ma, certo, cento anni fa gli effetti della crisi economica e della pandemia (c’era anche un terzo elemento, è vero, il lascito, pesantissimo, della Grande Guerra), hanno portato all’avvento dei totalitarismi e poco dopo alla Seconda Guerra Mondiale. Non ad un’umanità migliore, più fraterna e solidale.

Cerchiamo tuttavia di non essere così pessimisti. La pandemia, in fondo, è stata anche letta come un’occasione per “fermarsi”, per riflettere. Non solo sulle sorti collettive del genere umano, anche, più modestamente, su noi stessi.
L’idea che lo stop imposto dal Covid-19 ci possa aiutare a fare chiarezza sui nostri “fondamentali” è un po’ ingenua, e si fonda su un’analogia: così come quando corriamo, a piedi, in automobile o su un treno, non riusciamo a cogliere i dettagli di ciò che ci circonda, perché tutto sfreccia velocemente e si allontana, così nella nostra vita piena di preoccupazioni, scadenze, obblighi, non riusciamo a mettere a fuoco le cose veramente importanti, quelle che dovremmo valorizzare o sottrarre alla “corsa dei topi”.
Può essere che qualcuno, in questi mesi di forzata clausura e a volte di inattività lavorativa, abbia scoperto se stesso. Ma personalmente faccio fatica ad immaginarlo. Se l’obiettivo è quello dell’autoconsapevolezza, penso sia nostro compito sforzarci di raggiungerlo nella vita di ogni giorno, con i suoi piatti da lavare, i suoi calzini bucati, e anche con le sue corse. Non grazie a un break di qualsivoglia specie, peggio che mai se indotto da una pandemia.

Il Coronavirus, però, ha almeno stimolato la produzione di innovazioni collettive. Ad esempio, ha sdoganato il telelavoro, cosa di cui discutevo vent’anni fa con i ricercatori dell’Irst. Si potrà dire tutto il male che si vuole di smart working e DaD, ma, onestamente, oggi sembra persino assurdo che queste cose non siano state sperimentate prima. Gli effetti più inquietanti mi sembrano altri. Le emergenze, si sa, favoriscono la verticalizzazione del potere, i decisionismi, i leader “forti”. Mai come oggi le governance diffuse, le decisioni condivise, persino gli autogoverni territoriali, sono stati messi in discussione. Per di più, agli effetti della pandemia si sommano le paure fomentate dai populisti, dal terrorismo e dai nuovi nazionalismi che premono alle porte dell’Europa (un’Europa che percepiamo sempre come lontana, per quanto ci aiuti). Recuperare una dimensione civile, inclusiva, “aperta” nell’agire politico è uno dei compiti che ci attendono, “nell’anno che sta arrivando”, per dirla con Lucio Dalla.
Auguri a tutti.

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Pubblicato da Marco Pontoni

Bolzanino di nascita, trentino d’adozione, cittadino del mondo per vocazione. Liceo classico, laurea in Scienze politiche, giornalista dai primi anni 90. Amori dichiarati: letteratura, viaggi, la vita interiore. Ha pubblicato il romanzo "Music Box" e la raccolta di racconti "Vengo via con te", ha vinto il Frontiere Grenzen ed è stato finalista al premio Calvino. Ma il meglio deve ancora venire.