Quando la ragione riposa

C’è un periodo dell’anno in cui il tempo si spezza e il mondo si rovescia e “anco il villan zappar fa il suo padrone”. È il tempo del carnevale, una sospensione temporale, un interregnum, un corteo, una processione delle stelle fino a che l’astro sovrano dell’Anno Vecchio non è completamente declinato e l’astro sovrano dell’Anno Nuovo è salito sulla sommità del trono, in attesa del periodo di fame, di patimenti, di povertà che cade sotto il nome di Quaresima, ovvero il periodo che precede la Pasqua, quando le dispense sono ormai vuote e i frutti della terra ridotti a quella Cenere festeggiata il Mercoledì Santo, nella speranza che la madre terra ritorni, con il nuovo Re, a produrre nuovi raccolti. “Carne vale”!, carne, addio! O “carni levamen”, sollievo della carne.
È il Carnevale, il momento in cui la follia abbaia contro la legge della ragione.
Ma intanto nel tempo sacro irrompono il tempo profano e l’incursione dell’umana risata di scherno e di dissacrazione di tutto ciò che fino a quel momento scandiva l’inarrestabile scorrere del giorno alternato alla notte. A Termeno si sentono passi pesanti, sbucano gli Egetmänner – sfilano soltanto negli anni dispari, quindi il 2019 è anno buono –, gli alti uomini che camminano sui trampoli, vestiti di foglie, pelli e stoffe. Sfilano per le strette vie del borgo medioevale e il loro intento è cacciare via l’inverno e gli spiriti maligni, aprire le porte e il sorriso alla primavera. Il protagonista di questa sfilata vegetale è l’Egetmann Hansl, il ricco uomo che viaggia con la carrozza di nozze attraverso il paese, seguito da un corteo di uomini selvaggi, orsi bianchi e verdi, strani scheletri danzanti (resuscita la primavera, resuscitano i morti, il mondo si rovescia), appaiono il Burgl e il Burgltreiber, un uomo e una donna. Il loro nome deriva dal latino “purgare”, e già questo è un indicatore di quello che può succedere ai visitatori. In questo corteo, che assomiglia ad una dionisiaca sfilata fatta di satiri e menadi, spicca lo Schnappvieh, il coccodrillo, senza orecchie, vestito di pelli di pecora e di vitello, con grandi corna e mandibole sempre aperte in cerca di una preda. Lo Schnappvieh è seguito da un rude macellaio che, ad ogni fontana, ne cattura e ne uccide uno, chiudendo in tal modo il ciclo invernale cattivo scacciato dalla primavera buona.
Stessi movimenti, mascherate, grida, corse e fermate improvvise vengono messi in scena a Prato allo Stelvio dagli Zusseln, che trainano un aratro infernale. Tra il vento venostano che fischia imperterrito tra i masi e che conduce gli uomini e le donne sull’orlo della follia, si sente incessantemente il fragore dei campanacci di varie dimensioni che vengono scossi con grandi salti. Non siamo in Sardegna, non siamo a Mamoiada tra i mamuthones, però il senso delle urla verso il nulla è lo stesso, il bisogno di aiutare la natura a risvegliarsi è un bisogno che soggiace a tutte le culture agricole. Per questo i visi delle maschere carnevalesche della val dei Mocheni sono neri, neri come la terra generante e fertile, perché il nero è il colore del ventre della terra in cui si opera la rigenerazione del mondo diurno. Ben lo sapevano gli antichi egizi, Iside era nera, come Afrodite, Demetra, la Madonna di Loreto che si festeggia a Castel Madruzzo e a Lavis. A Palù dei Mocheni sfilano il Becio/Vecchio, la Becia/Vecchia e l’Oeartrogar/Portatore di uova. Il lunedì grasso, il lunedì dei mangioni, i Koskröttn con i Bece e il suonatore si recano in visita a tutti gli otto masi del paese: ballano, adocchiano le ragazze da marito per ordinare delle torte che passeranno a ritirare il giorno seguente. La trappola è innescata, le relazioni amorose nascono qui sulla soglia dei masi. Anno nuovo vita nuova. Sebbene qui, in cima alla valle dei Mocheni, non si rovesci il mondo, non ci sia nessuna ancella che prende il posto della signora o nessuno schiavo che inceda con il rango del signore e nessun potente che stia in basso come l’uomo comune. Troppa solitudine lassù dove solo il vento bussa alla porta. Il piccolo villaggio di Romans, nella Francia ugonotta sud orientale, è lontano. Lì, nel 1579/80, il carnevale ha rovesciato il mondo, materializzando sogni ed utopie: un tal Paulmier si veste di una pelle d’orso, urla a gran voce ai nobili e agli ecclesiastici che prima che siano passati tre giorni la carne di cristiano si venderà a sei denari la libbra. Vengono scacciate le autorità e i contadini si siedono sugli scanni del comando della città. I ricchi si vestono da poveri, i poveri si vestono da ricchi. Tutto finirà in un grande mattatoio, dove i rivoltosi saranno scannati come maiali. Il mondo alla rovescia ritorna nel suo verso giusto e la Quaresima apre le porte sulla penitenza e sulle ceneri cosparse sulle teste di chi subirà, subito dopo, la morte per impiccagione. Ma questa è tutta un’altra storia. Noi rimaniamo in questa “nave dei folli”, dove la risata si camuffa in maschera, dove il tempo primordiale apre le porte, anno dopo anno, ad una folla di apparizioni tra lo spettrale, lo stregato, il larvale, l’ossessionato, in una sorta di sciamanico sonnambulismo che irrompe dai vicoli dei paesi per chiudersi nelle piazze dove il fumo che sale dal cibo si confonde con quello dei mortaretti e con le urla chiassose.
Intanto in val di Fassa sfilano i Bufon, i Lachè, i Marascons, personificati tradizionalmente dai “coscric” e dai giovani scapoli del paese. Avanzano in una danza ritmata, battono il tempo, il calendario umano scorre lento ma inesorabile. A vederli da lontano sembrano le avanguardie di una caccia selvaggia uscita dalla foresta e scesa dai monti, e non facciamo fatica a pensare alle menadi, a Dioniso, al Dio della Furia, al delirium potatorum, che irrompe, come una tempesta, nel mondo di qui. Se fossimo in un paesino del meridione o andaluso questo corteo anticiperebbe quello processionale dei flagellanti e dei battuti della Settimana Santa. Ma le bianche crode dolomitiche ci suggeriscono altre parole, come il sabba delle streghe e degli stregoni: attraverso il buco del disordine del calendario irrompe il corteo trionfale del dramma della straordinarietà. Poi, calato il sipario del carnevale, terminano i giorni infausti della paura, aperti dai krampus e da San Nicola, tenuti spalancati dai Re Magi e dalla Vecchia/Befana. Il martedì grasso ci permette ancora una grossa e grassa risata. Poi, soltanto il silenzio del Mercoledì delle Ceneri, dove le parole sussurrate ripetono “ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai”. Una frase che scardina e strappa ogni maschera.
Il Carnevale costringe tutti ad imbarcarci sul traghetto della vita che scorre, se non si vuol morire con l’Anno che tramonta. ■

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Pubblicato da Fiorenzo Degasperi

Fiorenzo Degasperi vive e lavora a Borgo Sacco, sulle rive del fiume Adige. Fin da piccolo è stato catturato dalla “curiosità” e dal demone della lettura, che l’hanno spinto a viaggiare per valli, villaggi e continenti alla ricerca di luoghi che abbiano per lui un senso: bastano un graffito, un volto, una scultura o un tempio per catapultarlo in paesi dietro casa oppure in deserti, foreste e architetture esotiche. I suoi cammini attraversano l’arte, il paesaggio mitologico e la geografia sacra con un unico obiettivo: raccontare ciò che vede e sente tentando di ricucire lo strappo tra uomo e natura, tra terra e cielo, immergendosi nel folklore, nei miti e nelle leggende. fiorenzo.degasperi4@gmail.com