Torniamo ai paesi: sognando bene questa volta

Che cos’è un paese di montagna? Un grumo di case abbracciate, addossate le une alle altre per darsi conforto, per non scivolare giù quando certe sere d’inverno il vento da Nord-Est ti viene a bussare ai vetri delle finestre e sopra ai coppi del tetto. Un grumo di case, le più con le porte e le finestre sprangate a rinchiudere muffe e silenzi e fantasmi di tante vite trascorse altrove.

Che cos’è un paese di montagna? Un incrocio di sentieri non più battuti, una fila di orti e di campi lasciati ai rovi e calanchi levigati dalle piogge che hanno portato a valle il lavoro di secoli; generazioni di gente montanara ha posato sasso sopra sasso per sorreggere una tasca di terra dove mettere a dimora patate e grano saraceno. Patate e polenta scura; cibo da poveri, ma bastevole. Terra rubata, terra perduta.

Che cos’è un paese di montagna? Il seggiolino della giostra di un luna park di periferia lasciato ad arrugginire e alberi di cemento armato di altre età. Ferro e cemento erano il luminoso avvenire dei paesi di montagna, oggi i ferri fuoriescono da pilastri che non sorreggono più alcunché, come spine da ferite infette impossibili da guarire.

Che cos’è un paese di montagna? Insegne scolorite, illeggibili oramai, sopra vetrine di botteghe e laboratori artigiani, che erano vita e lavoro di tanti, che oggi sono dimora di gatti irosi che non vogliono essere disturbati.

Eppure c’è stato un tempo, non troppo lontano che i paesi di montagna ricolmavano di vita e i bambini correvano le strade e c’erano le vacche nelle stalle e il fieno in soffitta a tenere al caldo la casa. E vecchi c’erano, seduti davanti alla porta ad aspettare di andare di là, dove li stavano aspettando. E falegnami e ciabattini, caseifici turnari e negozi all’ultima moda che vendevano i jeans di marca, quelle marche che solo nei paesi di montagna avevano, ma noi ci credevamo e ci bastavano per sognare le città, non Londra o Parigi a volte neppure Milano, solo anguste cittadine, capoluogo di province lontane da ogni cosa, ma i sogni sono sogni, anche quando sono meschini.

Sì, è stata colpa dei nostri sogni troppo piccoli che è venuto giù tutto, siamo stati noi, noi a chiudere le botteghe, noi a vergognarci dei nostri vestiti, noi a vergognarci dei nostri vecchi, noi a togliere i sassi, a uno a uno, dagli ometti segnavia fino a farli crollare. Abbiamo sognato troppo forte e troppo in fretta e male. Abbiamo perso la strada nella nebbia quando le pietre degli ometti non ci hanno più guidato. Siamo stati noi, che nei paesi siamo nati, a sprangare le porte e ad andarcene e chi è rimasto ha lasciato che ce ne andassimo senza neppure un saluto.

Altri non avevano sogni ma potere e, per i nostri sogni, chi aveva potere, pagava il doppio, a volte il triplo, del prezzo di mercato di una vacca per farla macellare, perché le quote latte servivano alla pianura, servivano a chi di vacche ne aveva mille e una, non importava a nessuno chi di vacche ne aveva solo una. Per i nostri sogni chi aveva il potere ha sconvolto i pascoli e piantato ferro, ma non ha mai allargato una strada e messo un autobus, per i nostri sogni hanno costruito autostrade per portarci lontano. Poi, noi abbiamo smesso di sognare.

Oggi i sogni si sono capovolti, dalle città che hanno divorato sé stesse, dalle gabbie non più dorate dei centri commerciali ci chiedono di ritornare ai paesi e sarebbe bello che accadesse, ma io mi guardo attorno e il mio paese non c’è più, i paesi di montagna non esistono più. Un modo di vivere solidale, che faceva correre anche chi, per antichi rancori, non si salutava da anni, però correva quando il fieno secco rischiava di perdersi sotto il temporale e servivano braccia veloci per portarlo a baita, correva quando c’era bisogno senza chiedersi per chi corresse; un modo di vivere solidale che ha permesso di stare in montagna per millenni è perduto per sempre.

E allora tocca di nuovo a noi tornare a sognare, e sognare bene questa volta, sognare di far tornare a vivere i paesi di montagna. Ma non sogneremo mai più vacche e stalle o industrie o luna park, sogneremo dignità per i figli, e fibra ottica per non far perdere loro due lezioni su tre e trasporto pubblico, sogneremo uffici pubblici efficienti e sogneremo genti da tutto il mondo che quassù possano tornare a vivere una nuova vita. Faremo grandi sogni questa volta.  

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Pubblicato da Andrea Nicolussi Golo

Responsabile dello sportello Linguistico della Magnifica Comunità degli Altipiani Cimbri, collabora con l’Istituto Cimbro di Luserna/Lusérnar Kulturinstitut. Ha pubblicato il libro di racconti Guardiano di Stelle e di vacche (2010), e i due romanzi Diritto di Memoria (2014) e Di roccia di neve di piombo (2016), quest’ultimo finalista e segnalato ai Premi ITAS, Rigoni Stern e Leggimontagna. Nel 2011 è stato insignito del premio “Ostana scritture in lingua madre”. Ha vinto numerosi concorsi di poesia sia in lingua cimbra che in italiano e nel 2013, su autorizzazione Einaudi, ha dato alle stampe la traduzione in lingua cimbra del capolavoro di Mario Rigoni Stern Storia di Tönle. Nel 2016 ha pubblicato la traduzione in cimbro de Il piccolo principe e nel 2018 la versione integrale di Pinocchio. Per l’Istituto Cimbro di Luserna ha pubblicato varie favole per bambini.

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